Questa è un’affermazione che è stata fatta da alcuni agricoltori nel corso di uno dei numerosi incontri tecnici itineranti organizzati presso i concessionari da Kverneland Group Italia: «Noi continuiamo ad arare, perché interrando i residui colturali si favorisce la loro degradazione e quindi aumenta la fertilità dei terreni».

È quasi superfluo dire che non è così. Il cosiddetto humus, indice di fertilità dei terreni, si produce grazie alla degradazione dei residui colturali e della sostanza organica presente sulla superficie dei terreni coltivati. Questa degradazione viene effettuata da miliardi di microrganismi, che costituiscono la fauna terricola e che producono l’humus. Se si ara, con il rovesciamento della fetta operata dall’aratro, i microrganismi vengono catapultati in profondità insieme ai residui colturali, provocando una forte dispersione degli uni e degli altri. Inoltre si favorisce una eccessiva ossigenazione del terreno che mineralizza la sostanza organica che non si può trasformare in humus.

Il terreno agrario ideale deve avere il 25% di spazi vuoti creati dai microrganismi e dalla radici delle colture e delle cover crops, il 25% di acqua e il 50% di terreno. La porosità del terreno che ne determina la sofficità e la lavorabilità deve dipendere soprattutto dall’attività delle colture e della fauna terricola e solo in parte da lavorazioni minime superficiali.

Altrettanto falsa è la convinzione che solo con l’aratura si favorisce la tesaurizzazione delle riserve idriche del suolo. Anzi, è vero esattamente il contrario: i residui colturali lasciati in superficie con il sodo o lo strip-till, oppure in parte leggermente interrati a 15 cm di profondità, impediscono sia l’evaporazione sia l’erosione eolica. Quando poi si rovesciano acquazzoni o nubifragi, la copertura anche parziale del terreno riduce la quantità di acqua che scorre in superficie e se l’acqua rimane più tempo in loco, può infiltrarsi per rimpinguare le falde.